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[ Dicono di noi > La sottile linea rossa - Carta, sabato 16 set 2006 ]

Accordo Armonizzazione 3/07/2009

Mobilità lunga e Accordi 19/02/2007

Proposta rsu per Almaviva Green

Assemblea nazionale dei lavoratori dei call center

La sottile linea rossa

di Giuliano Santoro

 

Mentre state leggendo queste righe, una catena di montaggio telematica sforna voci calorose e certezze senza scatto alla risposta ai consumatori a rate, che vogliono sapere come attivare il decoder per il digitale terrestre. O che chiedono se a Joppolo (Cz), si può trovare un sushi-bar. Sono i lavoratori dei call center, XXX mila persone che vivono condizioni precarietà estrema.

 

Lo scorso 9 settembre si sono incontrati per la prima volta, a Roma, sulla spinta del responso degli ispettori del ministero del lavoro. Hanno stabilito che gli oltre 3 mila dipendenti di Atesia, il call center più grande d’Italia, non sono lavoratori “autonomi”, ma subiscono vincoli e regole del lavoro subordinato, e quindi devono essere assunti. Per rassicurare il mercato, il ministro del lavoro Cesare Damiano tirato fuori una circolare preparata quando il ministro era ancora Roberto Maroni, che opera una distinzione tra i lavoratori “inbound”, cioè quelli che rispondono al telefono, e quelli “outbound”, cioè quelli che fanno le telefonate. E ora vaglielo a spiegare, a questi ultimi, che sono “lavoratori a progetto”…

 

“I call center sono emblematici della situazione attuale – spiegano quelli del collettivo dei precari di Atesia – Sono posti in cui la produzione richiede coinvolgimento e attenzione. E dove insieme al prodotto si “fabbrica” il consumatore. Tutte contraddizioni che non si risolvono ottenendo mille euro al mese per otto ore al giorno di lavoro”. “Mille euro al mese? Magari”, sibila Donato ai suoi compagni. Arrivano da Bari, dove lavorano per Contact center, un’azienda che gestisce il numero verde Inps e Inail. “Siamo in tutto duecento – racconta – Ci rinnovano il contratto di anno in anno”. Una situazione paradossale: Donato e gli altri gestiscono con competenza un delicato servizio della pubblica amministrazione, ma li pagano 5 euro all’ora. Se lavori 22 giorni al mese arrivi appena a 650 euro. Se volessero chiamare gli ispettori Inps, dovrebbero telefonarsi da soli, perché è proprio a questo numero verde super-precario che ci si deve rivolgere in questi casi.

 

Pina invece è di Milano. Anche la sua è una situazione emblematica. Quando, negli anni scorsi l’Alfa di Arese ha cominciato a dimettere capannoni, Inaction (un’azienda che fa patrte del gruppo Cos, lo stesso di Atesia) ha messo dentro questo tempio del lavoro novecentesco un mucchio di giovani in cerca di reddito. “Ho un contratto a tempo indeterminato, anche se solo part time, cioè lavoro quattro ore al giorno – dice Pina – Ma in azienda sono applicati tutti i tipi di contratto”.

 

Micaela ci racconta invece la storia dell call center Alitalia, dove lavora da nove anni. Grazie a mobilitazioni e vertenze, negli anni passati, sono riusciti a strappare cinquanta contratti a tempo indeterminato. Ma le prospettive non sono delle migliori. Per via della crisi perenne della compagnia aerea di bandiera, ma anche per la continua corsa al ribasso del costo del lavoro. “La minaccia di esternalizzare il servizio è sempre incombente - dice Micaela – A Palermo c’è un’azienda del gruppo Cos [sempre quello, Ndr.]. Fanno lo stesso lavoro che facciamo noi, e presto faremo anche la stessa fine, ma sono pagati il 30 per cento in meno. Non siamo mai riusciti a fare uno sciopero insieme, quindi ogni volta che uno dei due centri si ferma viene sostituito dall’altro. E ci sono call center anche a Tunisi e a Parigi. Come colpire gli interessi dell’azienda? Quali forme di lotta sono efficaci?”.

 

Nell’hinterland milanese, a Cesano Foscone, c’è l’Iker Vodafone, un’azienda in cui lavorano quattrocento persone e che dal 1997 gestisce i servizi ai clienti di alcune banche e il 190 di Vodafone. “Alle elezioni per le Rappresentanze sindacali unitarie hanno partecipato solo Cisl e Uil  - ci racconta Alberto - Circolavano volantini che invitavano i lavoratori a mobilitarsi ‘per un’azienda più competitiva’. Sappiamo che siamo uno spauracchio per i lavoratori Vodafone: li minacciano di esternalizzare se chiedono troppo”.

 

“E invece è arrivato il momento di costruire un percorso unitario”, spiega Angela, che lavora proprio in Vodafone. È una delegata sindacale Cgil e sa che questo crea diffidenze: quasi tutti quelli che hanno provato a costruire vertenze nei call center hanno trovato un muro presso i sindacati confederali. “Da noi si sta meglio che in altri posti. È come se le lotte di Atesia avessero tracciato un solco. Sul suo sito Vodafone ci tiene a precisare che offre condizioni di lavoro migliori: è un segno importante, ma la minaccia dell’outsourcing è costante. Per questo dobbiamo muoverci tutto insieme, e inventarci forme di lotta alternative”.

 

Mariano viene da Catania. Da un mese ha smesso vendere pacchetti Sky da un call center di Misterbianco (a XX chilometri dal capoluogo etneo), perché quanto guadagnava gli serviva appena per pagarsi gli spostamenti. “Per fare un’ora di telefonate, quella che ti veniva pagata, dovevi lavorare due ore – spiega Mariano - Abbiamo fatto scioperi con il 95 per cento di adesione, ma è servito a poco, e piano piano hanno sostituito tutti. Dobbiamo trovare modalità efficaci e guardare tutto con prospettive più ampie”.

 

Enzo lavora all’assistenza clienti di Acea, l’azienda romana a partecipazione pubblica che gestisce acqua e corrente elettrica, e ci racconta di quando per non essere licenziati dovettero firmare una lettera di dissociazione da un volantino che chiedeva più diritti. Le storie di Mariano ed Enzo ci ricordano l’esistenza di una miriade di piccoli call center che gestiscono servizi in subappalto, dove è difficilissimo alzare la testa.

 

Nei grandi call center (come Atesia), nonostante rappresaglie padronali e diffidenze sindacali, è stato possibile costruire mobilitazioni. Sono situazioni in cui è come se la centralità dei luoghi di lavoro, in questi tempi di frammentazione, sia ancora un modello di riferimento. Invece, molto spesso il call center è solo uno dei nodi della rete della produzione metropolitana.

 

Raffaele è un’altra faccia del diamante multifaccia del lavoro. Non c’era all’assemblea nazionale di Roma. Ha 26 anni, lavora per tre ore al giorno in un call center piccolo, dove ci sono una ventina di postazioni, in un quartiere della Roma-bene. Guadagna cinque euro all’ora per somministrare via telefono questionari sull’efficienza della pubblica amministrazione, o per interrogare i clienti di un supermercato. Ha studiato scienze delle comunicazioni, e dopo la laurea ha seguito un corso per fare il fonico. Mentre si teneva l’assemblea era partito alla volta di Milano, per lavorare dietro al mixer al seguito di una boy band. Si è interessato spontaneamente la vicenda di Atesia, ma la sua identità e le sue aspirazioni non sono dentro il suo posto di lavoro.”Ci lavoro solo per pagarmi l’affitto – ci dice - Ma i diritti che vorrei mi fossero riconosciuti non sono legati a quelle tre ore pomeridiane. Sono legati alla formazione permanente che mi serve, oppure alla possibilità di mettermi in proprio e non dovere rispondere a nessuno di quello che faccio”. Così, ennesimo paradosso di questi tempi, mentre in Atesia i lavoratori chiedono che venga riconosciuta la loro “subordinazione”, Raffaele chiede che venga riconosciuta la sua autonomia.

 

Carta  - 16 settembre 2006

 

 

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