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Salute nei Call Center - Il Manifesto, domenica 25 giu 2006
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Il lavoro
sarà pure «immateriale» ma la salute ce la rimetti lo stesso Francesco Piccioni – Roma
Morire sul lavoro è sempre l'ipotesi estrema, naturalmente. ma è il punto terminale di una catena di indifferenza per la salute di chi «presta la propria opera» che parte dal momento stesso che un essere umano entra «in azienda». Qualsiasi cosa produca, materiale o «immateriale» che sia. Una situazione resa esplosiva dalla precarietà contrattuale, che è arrivata a squilibrare definitivamente un rapporto di forza già da tempo a tutto vantaggio dell'impresa. «Ritmi e ambiente di lavoro, flessibilità oraria, precarietà»: questa la miscela venefica individuata nella prima inchiesta nazionale sui lavoratori dei call center.
Condotta dai Cobas, su basi sociologiche di prim'ordine, ha coinvolto un campione di 500 lavoratori, di diverse società, di tutte le tipologie contrattuali. I risultati sono stati illustrati ieri mattina, a Roma. Ne escono fuori dati pesanti per quanto riguarda lo stress mentale e fisico, le relazioni con i «capi», il mobbing o le vere e proprie vessazioni, fino all'uso di tranquillanti e antidepressivi. Un insieme di disagi che si presta grandemente ad essere minimizzato, confinato tra i piccoli o grandi «fastidi» del vivere associato. Ed è infatti questa, quasi sempre, la linea difensiva proposta dalle aziende e avallata da «specialisti» non sempre indifferenti al fascino imprenditoriale. Vito Totire -medico e presidente nazionale dell'Aea (Associazione esposti all'amianto) - legge i dati in perfetta continuità con quel che accade i tutti i luoghi di lavoro. Ricorda che la Ue ha quantificato il danno economico da stress lavorativo equiparandolo a quello della vera e propria infortunistica.
E' questo, di fatto, l'unico «argine
istituzionale» alla tendenza che vuol cancellare ogni responsabilità di impresa
per una vasta tipologia di malattie professionali. Un grande aiuto alle aziende
è dato dall'attuale legislazione, che rende estremamente difficile poter
dimostrare che una certa patologia è causata da un certo lavoro. Persino nei
casi di mesotelioma si è cercato di dimostrare che non era l'amianto il
responsabile, ma la sola «predisposizione genetica». La stessa Inail ha
ricevuto in questi anni oltre un migliaio di denunce per disturbi «da stress»;
ma ne ha riconosciute solo pochissime, e quasi sempre dopo una sentenza di un
giudice. La legislazione, infatti, permette alle aziende di nominare un proprio
specialista per decidere se è responsabile o non d'aver provocato una
determinata patologia in un lavoratore. E quindi l'azienda non paga quasi mai.
La soluzione ci sarebbe, e a costo zero: affidare il riconoscimento alle Asl.
Un suggerimento per un governo che volesse restituire dignità e tutela al
lavoratore. Eppure il lavoro di call center non sembrerebbe, a prima vista, tanto «stressante». Bisogna entrare nel dettaglio dei meccanismi produttivi per rendersene conto davvero. La tipologia di lavoro è altamente standardizzata e parcellizzata, ripetitiva. Ma la ripetizione si applica a una relazione col cliente, che richiede perciò grande attenzione e concentrazione. Le aziende, del resto, hanno attivato i call center proprio per interrompere i rapporti con gli utenti, che volentieri ridurrebbero all'esazione della bolletta. L'operatore, perciò, è nella posizione di dover collegare qualcuno che magari protesta per un disservizio ad un'azienda che non vuole avere rapporti diretti neppure con l'operatore stesso, che infatti «dipende» da altre società. «L'operatore - spiega un ricercatore - è psicologo, venditore, ragioniere, moderatore, centralinista». Deve essere uno che «risolve i problemi» senza avere nessuna certezza di poter risolvere i propri (la «condizione precaria» è talmente generalizzata nei call center da far sentire tali anche i lavoratori con contratto a tempo determinato).
Ed ecco allora una serie di microeventi quotidiani che lentamente fanno evolvere patologie comuni a pressoché tutti gli operatori (al 70% donne, comunque). Il carico di lavoro è «sovradosato» per il 70% degli intervistati, la stessa percentuale che lo considera «mentalmente impegnativo», con intervalli di riposo sufficienti solo per il 18%. Sul posto di lavoro non si mangia affatto o lo si fa malissimo, in tempi ristrettissimi; mobbing e vessazioni sono «abituali» o quasi per il 40%. La stanchezza cronica aggredisce il 50%, anche perché il 70% di loro si trova a prendere di continuo decisioni in tempi rapidi. Così il 50% circa è stabilmente depresso, cosa che comporta un 10% di consumatori di antidepressivi; mentre fa uso di tranquillanti il 15%. Ben il 23% accusa patologie varie che riferisce direttamente al lavoro. E anche al luogo fisico (numerosi i casi di dermatiti, pediculosi, ecc).
Le aziende ne sono così consapevoli che stanno già correndo ai ripari con annunci tipo: «selezioniamo persone particolarmente resistenti allo stress». Una razza a parte, per non intralciare la produttività.
Il Manifesto – 25 giugno 2006 |
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