Una nuova legge sui «rami d'azienda»
Il caso Vodafone. I limiti di una norma pessima
peggiorata dalla «legge 30». Da cambiare subito
Alberto Burgio
Dopo il Protocollo sul welfare è toccato all'accordo
sulla cessione del servizio clienti di Vodafone al gruppo Comdata. In entrambi
i casi le scelte dei vertici sindacali hanno ricevuto il via libera dai
referendum indetti tra i lavoratori. È il caso di parlare di successi della
partecipazione democratica?
Sul Protocollo ci sono opinioni diverse, sia sulla congruenza del quesito, sia
sulle modalità della consultazione, certo non favorevole alla libera
espressione delle posizioni critiche. Anche sull'accordo Vodafone-Comdata il
giudizio è discorde. L'8 novembre, su queste pagine, Alessandro Genovesi lo ha
definito un «importante passo avanti», pur chiarendo che il Slc-Cgil mantiene
un giudizio critico sulla cessione. L'accordo conterrebbe buone garanzie per i
914 lavoratori ceduti e il referendum avrebbe garantito la democrazia
sindacale. Il giudizio di gran parte dei lavoratori è ben diverso. In primo
luogo occorre tenere conto che ai lavoratori non è stata offerta la possibilità
di opporsi alla cessione. Il consenso di chi ha accettato l'accordo non implica
quindi un giudizio favorevole al trasferimento. Tutt'altro. L'accordo genera
precarietà (in Vodafone i contratti erano a tempo indeterminato) e nulla
garantisce in merito ad ulteriori eventuali esternalizzazioni. Si parla di
sette anni di lavoro garantiti e c'è da sperare che la clausola di co-datorialità
inserita nell'accordo (l'obbligo, per chi cede, di garantire la tutela
occupazionale dei lavoratori trasferiti) costituisca un paracadute sufficiente.
Nulla è stato chiesto né garantito agli altri 8mila dipendenti Vodafone, che
ora temono per il proprio futuro. Non stupisce che la consultazione abbia
registrato appena il 44,4% dei consensi e l'opposizione di oltre il 41% dei
lavoratori, che verranno pertanto ceduti contro la loro volontà.
Detto questo, su un punto non si può non convenire con
Genovesi. La normativa vigente in materia (l'art. 2112 del codice civile
modificato da un decreto attuativo della legge 30) è pessima, proprio perché
consente alle imprese di trattare i propri dipendenti come «sacchi di sabbia».
Il punto-chiave è l'assenza di vincoli sul piano dell'autonomia funzionale
preesistente alla cessione, che permette all'impresa di trasformare in «ramo
d'azienda» e cedere qualsiasi gruppo di dipendenti. Violando un principio in
vigore sino al 2001 e ribadito tanto dalla Cassazione quanto dalla Direttiva
europea 23/2001. Non solo. Il totale arbitrio delle imprese determina
conseguenze dirompenti perché, al contrario, ai lavoratori non è dato opporsi a
trasferimenti che spesso mascherano puri e semplici licenziamenti collettivi.
Contro questo stato di cose la Corte di Giustizia europea ha sancito la legittimità di
normative che prevedano il diritto del lavoratore di «opporsi al trasferimento
del suo rapporto di lavoro». Invano, per quel che riguarda il Bel Paese, culla
della «buona flessibilità» nella quale il lavoro rischia di vedersi ridotto a
variabile dipendente dei processi produttivi.
E difatti il caso Vodafone (una multinazionale che registra utili annui di
oltre 4 miliardi di euro) è solo la punta di un iceberg. Genovesi ha ragione
nel chiamare in causa tutti gli attori coinvolti a una precisa assunzione di
responsabilità. Ci vuole una nuova legge, che metta fine a un andazzo non più
tollerabile. Anche a questo proposito, però, occorre un'attenta valutazione. La
codatorialità è necessaria ma insufficiente, perché interviene quando il danno
(la crisi dell'azienda cessionaria) è fatto. Va quindi accompagnata da garanzie
preventive che riguardino sia l'autonomia funzionale del ramo d'azienda, sia il
consenso dei lavoratori, che debbono poter decidere sul proprio destino.
Una proposta di legge di tal fatta (la n. 2261) è stata depositata alla Camera
lo scorso febbraio. Per sollecitarne l'esame da parte della Commissione Lavoro
si è sviluppata in queste settimane una mobilitazione spontanea tradottasi già
in oltre mille sottoscrizioni (zanutto.giorgio@libero.it). È il momento di
stringere e di passare dalla denuncia all'iniziativa. La precarietà non è fatta
solo di tempo determinato e di finte collaborazioni a progetto. È anche il
frutto avvelenato di licenziamenti collettivi messi in atto con la complicità
di una legge vergognosa.
Il manifesto – 20 novembre 2007