Perché
sui call center si contraddice il Congresso
Il nodo sta nella figura
del collaboratore: per la tesi 5 deve essere parificato al dipendente. Ma
l'«avviso comune» dice no
Antonio Sciotto
L'approvazione
da parte del direttivo Cgil dell'avviso comune sui call center porterebbe a una
grave contraddizione con le tesi approvate al Congresso di Rimini, nel marzo
scorso, con un'ampia maggioranza. E' vero che il Direttivo rappresenta il
«parlamento» della Confederazione, ed è dunque il luogo della «sovranità delegata»,
ma a questo punto si dovrebbe capire come si rapportano quei risultati
ante-elezioni con una sorta di successivo «effetto Prodi»: il sindacato,
contrario nel marzo 2006 (vedi documenti congressuali) alla legge 30 ed
esplicitamente favorevole alla sua cancellazione, nel momento in cui viene
emessa dal governo dell'Unione una circolare applicativa della stessa «Biagi»
(giugno 2006, circolare del ministero del lavoro sui call center), accetta di
recepirne una parte, traducendola nell'«avviso comune» siglato con le imprese
il 5 ottobre. In particolare, si accetta l'uso dei contratti a progetto per
lavoratori che a tutti gli effetti sono «economicamente dipendenti», pur
lavorando in outbound (cioè fanno le telefonate anziché riceverle): seppure
possano essere più liberi nella auto-gestione dei tempi, infatti, gli addetti
alle telefonate in uscita sono comunque subordinati a un'organizzazione del
lavoro e a un risultato decisi dall'impresa. Concetto che rappresenta il nucleo
delle tesi approvate al Congresso Cgil, e che il giuslavorista Nanni Alleva
definisce «dipendenza socio-economica» (Alleva è anche autore delle proposte di
legge Cgil votate nel 2002 da 5 milioni di cittadini, confluite poi nelle tesi
congressuali).
Riassumiamo: se in marzo la Cgil fa proprio quel concetto di dipendenza, auspicando
una riscrittura del lavoro che estenda ai parasubordinati quel corpus di
diritti oggi riservati ai subordinati, in ottobre si accetta invece che vi
possano essere lavoratori «economicamente dipendenti» di serie A (gli inbound,
in ricezione telefonate, cui è riconosciuto il contratto di subordinati, con le
garanzie annesse) ed «economicamente dipendenti» di serie B (gli outbound, cocoprò:
compenso libero, contributi nettamente inferiori, niente ferie, minori diritti
su malattia e maternità, niente giusta causa).
Analizziamo i documenti. Fondamentale è la tesi 5 del
Congresso, dal titolo «Un'occupazione solida e stabile». La Cgil propone un «nuovo patto di cittadinanza»: «Un patto -
è scritto al punto 1.4 - che abbia come cardine il nuovo concetto di
"lavoro economicamente dipendente", con la conseguente estensione dei
diritti (e dei costi) attribuiti oggi al lavoro subordinato a tutte le
fattispecie economicamente dipendenti dall'impresa (a partire dalle collaborazioni),
concetto alla base delle proposte di legge d'iniziativa popolare su cui la Cgil ha raccolto 5 milioni di firme». Testo più che
esplicito: sono pure citate le collaborazioni. Ancora, al punto 2.1 si dice che
«si deve ribaltare l'intera filosofia della legge 30»; e che «questo significa
per noi cancellare la legge 30 e sostituirla con un sistema di norme e diritti
complessivamente alternativo, partendo dalle nostre proposte». A fine
congresso, a grandissima maggioranza, viene approvato il documento conclusivo,
e lì viene scritto: «Combattere la precarietà per la Cgil vuol dire cancellare la legge 30, ma soprattutto:
dare nuova centralità al contratto a tempo indeterminato; ripensare in
profondità il mercato del lavoro attraverso l'estensione del concetto di
lavoratore economicamente dipendente con una modifica dello stesso codice
civile». Anche qui è chiarissimo. Ma poi, il 5 ottobre, l'avviso comune sui call
center improvvisamente «resuscita» la dignità del contratto cocoprò, scrivendo
che «per le attività di outbound il ricorso al lavoro a progetto è consentito
in coerenza con quanto previsto nella circolare ministeriale 17 del giugno
2006».
Il
Manifesto – 22 novembre 2006