Tlc, quei
licenziati mascherati
La
Telecom negli ultimi anni ha esternalizzato per
liberarsi di migliaia di lavoratori. La causa vinta nel caso della Tnt Logistics
Orsola Casagrande
Un po' in
sordina rispetto al clamore che ha travolto Telecom in queste settimane, è
uscita la sentenza che condanna l'azienda alla reintegrazione dei lavoratori
che erano stati «ceduti» a Tnt Logistics. Secondo i magistrati infatti quella
che Telecom aveva spacciato per cessione di un ramo d'azienda, si è rivelata
nei fatti una mera esternalizzazione dei servizi di logistica operativa.
Pertanto i lavoratori che hanno presentato ricorso devono ritenersi «a tutti
gli effetti ancora dipendenti della società Telecom». La vicenda inizia il 28
marzo del 2000 quando Telecom e sindacati confederali siglano un accordo per la
prima grande ristrutturazione dell'azienda dopo la privatizzazione. L'accordo
prevede tra l'altro la mobilità verso la pensione per 13500 lavoratori e
l'accettazione dell'outsourcing di logistica e autoparco. La logistica viene esternalizzata
nel marzo 2003 dopo essere stata rimpinguata di lavoratori, dai 250 ai 400
ceduti. Telecom cede a Tnt Logistics l'attività e circa 400 dipendenti in
Italia. Come è successo in tutte le esternalizzazioni Telecom, poco dopo la
cessione anche Tnt Logistics avvia le procedure di mobilità ex L. 223: nel 2004
per 74 lavoratori, nel 2005 per altri 64 e nel 2006 per ulteriori 20. Offre ai
lavoratori soldi come buonuscita. Sempre nel 2004 distacca presso altra azienda
del gruppo 127 lavoratori. Nel 2006 la riduzione del personale è ormai del 50%.
Oggi Tnt Logistics è stata venduta ad un fondo pensioni Usa, Apollo Management.
«Quando è avvenuta la cessione dell'attività logistica a Tnt
Logistics - racconta Pierpaolo Carlesso, dei Cobas lavoro privato - Telecom
chiede ai lavoratori di non fare causa e offre 5 mila euro lordi come prezzo
del silenzio». Una parte di lavoratori sostenuti dai sindacati di base invece
rifiuta l'offerta di Telecom e incarica i suoi legali di avviare la causa. In
questi giorni stanno arrivando le sentenze e, con l'eccezione di Milano, sono
ovunque positive per i lavoratori. «In pratica - spiega Carlesso - Telecom ha
aggirato le leggi sulla riduzione del personale utilizzando in modo improprio
l'articolo 2112, "appaltando" ad aziende compiacenti il compito di
smaltire il personale». Che quello veneziano non sia un caso isolato lo
dimostra anche il caso dei dipendenti Telecom ceduti a Im.Ser Spa (società
veicolo nella quale oltre alla stessa Telecom con il 40% del capitale erano
stati associati Beni Stabili Spa con il 45% e Lehman Brother con il 15%). Nel
2000 all'interno della struttura Telecom era stato creato un nuovo settore
denominato «Grandi Immobili» al quale erano stati assegnati circa un centinaio
di lavoratori presi qua e là nei vari settori dell'azienda. Il nuovo settore
aveva il compito di gestire e valorizzare il patrimonio immobiliare di maggior
pregio dell'azienda: circa 600 immobili per un valore stimato di circa
2,9miliardi di euro. Viene creata la Im.Ser Spa dove confluiscono dopo un anno dalla creazione di
Grandi Immobili, sia gli immobili che i lavoratori. Dopo quattro mesi dalla
cessione (aprile 2001) la società viene nuovamente scissa: nasce Telemaco
Immobiliare Spa con gli stessi soci della Im.Ser. In essa confluiscono 190
immobili e circa 80 lavoratori.
Passa ancora un anno e nell'agosto 2002, la Telemaco viene ceduta a un gruppo controllato dalla
statunitense Goldman Sachs, mediante la creazione dal nulla di una nuova
società veicolo, la
Mirtus Srl. Da
dipendenti Telecom i lavoratori ceduti e riceduti si ritrovano dopo 19 mesi
dipendenti di una srl i cui proprietari restano a tutt'oggi sconosciuti. A
settembre 2002 Mirtus cambia nome e diventa Telemaco Immobiliare Srl. Dopo aver
proceduto alla vendita di tutti gli immobili, il 28 aprile 2005 l'azienda comunica ai sindacati la
volontà di licenziare tutti i lavoratori perché cesserà l'attività. Telecom è
stata condannata a riassumere i 50 lavoratori che si erano rifiutati di
accettare il trasferimento.
Il Manifesto – 3 settembre 2006