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[ Dicono di noi > Atesia e il lavoro: il re è nudo - Liberazione, giovedì 31 ago 2006 ]

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Atesia e il lavoro: il re è nudo

Giorgio Cremaschi

L'annosa vertenza sul rapporto di lavoro dei dipendenti dei call-center di Atesia è giunta a un nodo cruciale. A seconda di come essa si evolverà, i destini di tutto il mondo del lavoro precario potranno cominciare a migliorare, oppure continueranno ad andare male.

Riassumiamo innanzitutto i fatti. Pochi giorni fa è stata resa nota la relazione degli ispettori del lavoro, che erano stati interpellati dai lavoratori, nell'ambito di un'iniziativa promossa dal collettivo precari e dai Cobas. Il parere degli ispettori è inequivocabile. Nel più grande call-center italiano, la Mirafiori dei telefoni, non ha senso parlare di lavoro autonomo: siamo di fronte alla più tradizionale delle forme di lavoro subordinato. Dopo tanto tempo finalmente è chiaro che co.co.co. e co.co.pro. mascherano supersfruttamento ed evasione contributiva. Del resto il lavoro nei call-center è quanto di più taylorista si possa immaginare nell'ambito delle nuove tecnologie. Ritmi, orari, modalità di lavoro sono totalmente determinati dall'azienda che, non a caso, usa le stesse terminologie con le quali oggi si governa la catena di montaggio nella produzione manifatturiera.

Lo stesso utilizzo del part-time è semplicemente una forma di supersfruttamento. Infatti non è possibile parlare per 8 ore di seguito al telefono, senza entrare nell'assurdo. Per questo le aziende limitano la durata del lavoro a 4 o eccezionalmente a 5 o 6 ore. E' questa una prestazione completa, che andrebbe retribuita come il normale lavoro di 8 ore, comprendendo pause e riposi. Invece nei call-center si paga solo la prestazione viva, cioè tutto il tempo di riposo è a carico del lavoratore. Anzi, della lavoratrice, perché l'altro aspetto fondamentale di questo come di tanti altri lavori precari, è che il basso salario, gli orari ultraflessibili, l'autoritarismo, sono imposti prima di tutto alle donne.

Si potrebbe discutere a lungo per capire come è stato possibile che la dipendenza di quelle lavoratrici e di quei lavoratori dall'azienda, venisse trasformata in collaborazione autonoma. Solo il potere subliminale dell'ideologia del liberismo e dell'impresa può spiegare una cantonata sociale di queste dimensioni. Di cui per anni lavoratrici e lavoratori hanno dovuto subire i danni salariali e normativi. Ora il parere degli ispettori del lavoro parrebbe porre fine a questa truffa legalizzata.

 

Come nella fiaba, all'improvviso tutti si accorgono che il re è nudo. E invece non è così.
Il ministro del Lavoro finora non è stato in grado di difendere l'operato dei suoi ispettori. Anche perché, con una precedente circolare, aveva stabilito un assurdo principio per cui il lavoratore che riceve la telefonata è dipendente e quello che la fa è autonomo. Esponenti della maggioranza di governo hanno sostenuto che non si può esagerare nel porre vincoli alla flessibilità. L'opposizione, come al solito, ha detto che la flessibilità non basta mai. Eppure c'è un'istituzione dello Stato che ha semplicemente verificato che i lavoratori del call-center sono trattati illegalmente, anche nell'ambito della legislazione berlusconiana. Si dovrebbe tutti gioire per questa ritrovata funzione del servizio pubblico. Invece non succede. Pietro Ichino propone il licenziamento dei dipendenti pubblici nel nome dell'efficienza, mentre ignora completamente l'azione rigorosa ed efficiente dei pubblici ispettori rispetto ad Atesia. Così si esprime il vero spirito delle leggi attuali.
La Legge 30 e le altre norme che hanno diffuso e legalizzato la precarietà, hanno mandato a tutti un segnale inequivocabile: col lavoro si può fare quel che si vuole. Per cui gli ispettori, che in fondo applicano la Legge 30, vengono accusati di metterla in discussione perché non hanno compreso quello che la legge davvero vuole.

Tutto questo spiega perché bisogna abrogare quella legge, se si vogliono davvero cambiare le cose. Occorre che tutti coloro che sono diventati straricchi con il supersfruttamento, capiscano che la festa è finita. Lo stesso segnale che si comincia a dare con il fisco, va dato oggi per il lavoro.
Occorre una nuova politica pubblica a tutela della salute e della sicurezza del lavoro, utilizzando tutte le risorse già esistenti nella pubblica amministrazione e, se necessario, incrementadole. La lotta all'evasione contributiva permetterebbe di migliorare i conti dell'Inps al punto non solo di non dover effettuare tagli, ma di garantire un trattamento pensionistico dignitoso a chi non ce l'ha o rischia di non averlo.

Purtroppo però quando si tratta del lavoro e del suo valore, la politica va in tilt. Essa pare entrare in una sorta di zona a responsabilità limitata, ove tutto quello che normalmente si dice per altri temi, non può più essere affermato. Atesia dipende in gran parte dalla Telecom, da cui nasce come appalto. I soldi che lì vengono risparmiati sui lavoratori finiscono nel mare magno dei grandi profitti della telefonia, dei mass media, della pubblicità. Se c'è un settore ove l'ingiustizia è più clamorosa e l'impresa è più priva di responsabilità sociale esso è proprio quello che vede, alla fine della catena del valore, gli addetti ai call-center con i loro sette anni medi di lavoro precario e i 400 euro al mese di retribuzione. Ma proprio qui sta la difficoltà della politica. Far valere il parere degli ispettori del lavoro non significa soltanto compiere un atto di sacrosanta giustizia, ma spingere il sistema delle imprese a diventare ben diverso da come è oggi.

La vicenda Atesia, infine, lancia anche un segnale forte al sindacato confederale. L'ultimo accordo sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil prima dell'intervento degli ispettori e neppure sottoposto al voto di lavoratori, è stato un vero disastro. Si è subita totalmente la logica dell'impresa, cercando solo di mettere qualche pezza qua e là. Ora il parere degli ispettori dovrebbe servire per rivendicare l'estensione a tutte e a tutti del rapporto di lavoro subordinato. Invece alcune dichiarazioni, soprattutto da parte di esponenti di Cisl e Uil, quasi infastidite per l'intervento della pubblica autorità, nascondono una concezione dell'azione sindacale che va respinta. La contrattazione non può essere paragonabile alla giustizia sportiva, che rivendica per sé di essere avulsa da quella ufficiale. L'azione del sindacato parte dai diritti sanciti dalla Costituzione, serve ad ampliare ed estendere quei diritti, ed è sempre aiutata dall'intervento positivo della legge a tutela di essi.

Alla vigilia del confronto d'autunno sulla finanziaria, sui contratti, sullo sviluppo economico e sociale futuro, la vicenda Atesia, come si vede, ha molte implicazioni. Ognuna delle quali rimanda sempre allo stesso nodo: cambierà davvero per il lavoro, oppure le cose continueranno ad andare, più o meno, come prima?

 

Liberazione – 31 agosto 2006

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