«Contratto
dipendente per tutti i lavoratori»
Il
giurista Alleva: non dividere subordinati e parasubordinati
«Devo
essere sincero? Non mi entusiasma né il risultato delle ispezioni, che comunque
ovviamente è importante e da rispettare in pieno, né la circolare del ministro
Damiano: entrambe usano "ferri vecchi", sono basate su un concetto di
subordinazione superato, che individua la dipendenza solo in base all'intensità
del controllo sui lavoratori. Un metodo che rischia, magari in altre e future
ispezioni, di trovare dei parasubordinati da distinguere dai garantiti, dunque
dividendo ancora una volta tra serie A e serie B». Nanni Alleva, giuslavorista
della Consulta Cgil, spinge a individuare un nuovo e diverso criterio per
definire la dipendenza, che raccoglierebbe sotto un unico tipo contrattuale sia
gli attuali subordinati che i parasubordinati, finalmente con le stesse
garanzie e tutele. Una sorta di «rivoluzione copernicana» dei contratti, che
prenderebbe semplicemente atto dell'attuale situazione del mercato del lavoro
italiano.
Come si può superare l'«impasse» in
cui è caduto il mercato del lavoro?
Io credo che bisogna superare il concetto di
subordinazione classico, che andava bene per la vecchia fabbrica fordista,
mentre oggi i giovani chiedono le garanzie tipiche del lavoro dipendente e,
insieme, la possibilità di autogestirsi i tempi e i modi di lavoro. Ne
guadagnerebbero, in efficienza, le stesse aziende. Mi spiego: il ministro
Damiano ha tentato una coraggiosa distinzione intellettuale tra subordinati e
parasubordinati, nella sua circolare, come hanno fatto nel Medioevo i
cosiddetti «teorici degli epicicli cosmici»: ovvero una spiegazione
raffinatissima e pure verosimoile del movimento di astri e pianeti, ma con alla
base un difetto di fondo: si partiva dal mettere la Terra al centro dell'universo, con il Sole che girava
intorno. Ma oggi non si può più distinguere il lavoro dipendente a seconda del
grado di eterodirezione che subisce il lavoratore. Come si può fare con dei
responsabili del marketing, dei capisettore, degli addetti alle vendite? Oggi è
più rispondente la cosiddetta «dipendenza socio-economica», individuata
peraltro dalla sentenza numero 30 della Corte costituzionale: sei dipendente in
base alla «doppia alienazione», da risultato e da organizzazione. Se cioè metti
a disposizione la tua forza lavoro per un'impresa che ha un proprio piano
organizzativo e un'autonoma fissazione dei risultati, sei da considerare
dipendente a tutti gli effetti. Indipendentemente dal fatto che tu sia più o meno
eterodiretto da capi e gerarchie.
Dunque come dovrebbero cambiare le
tipologie contrattuali?
Si dovrebbe creare un unico contratto dipendente, con le
stesse garanzie per tutti, diviso al suo interno in dipendente effettivo e
autonomo, a seconda del grado di controllo. Ma è essenziale che questi
lavoratori abbiano, tutti, tre tutele fondamentali: contributi pieni;
l'applicazione dell'articolo 36 della Costituzione, che prevede un compenso
adeguato e sufficiente; la tutela dalla rescissione del contratto, l'articolo
18. Perché diciamocelo chiaro, l'invenzione dei cococò risale a una quindicina
di anni fa, quando alcuni giuslavoristi «riformisti» elaborarono, per conto
delle imprese, un contratto per non pagare ferie, contributi, malattia,
tredicesima, e poter licenziare a piacimento.
Come affrontare la riforma del
lavoro?
Io vedo tre vie. La prima, figlia comunque di
un'impostazione antiquata, è tornare alla «Biagi» originaria: solo chi è
autonomo può avere un contratto a progetto. Ma offre il fianco ad abusi e falsi
«progetti». La seconda, quella scelta dal governo attuale: aumentare a poco a
poco i contributi e le tutele ai parasubordinati. La vedo lenta e piena di
remore: porta in molti anni all'unificazione che ho prospettato prima. Dunque
perché non applicare subito la terza? Un contratto unico per tutti i lavoratori
«socio-economicamente» dipendenti.
Il Manifesto – 24 agosto 2006