il manifesto 16 Settembre 2005
La sfida
dentro Atesia: uscire dal precariato
Buona riuscita dello sciopero indetto dal «Collettivo
precari» per la stabilizzazione del posto di lavoro. Si rompe l'isolamento mediatico
e istituzionale: partiti ed enti locali solidarizzano
RED. EC.
ROMA
La precarietà è ultramoderna. Cerchi l'ingresso di Atesia
tra i palazzi di vetro a specchio di CinecittàDue, sali e scendi scale,
attraversi piani soprelevati sotto il cielo, con tante panchine e alberelli ben
curati. Sembra il fondale di un film di Kassovitz (La
heine). Puoi sbagliare strada, ma sempre in un
«covo» di precariato finisci: Cos, Atesia, Telecontact, o anche il supermercato
e i negozi del centro commerciale. Gli unici col contratto a tempo
indeterminato, a prima vista, dovrebbero essere quelli delle banche aperte nel
complesso. Quando trovi i ragazzi (qualcuno pure un po' attempato...) del
«Collettivo precari» scopri che c'è anche qualcun altro con il «posto fisso»:
un paio di agenti in borghese, sereni e tranquilli, che si informano sulle
ragioni della manifestazione. Con l'inizio del primo turno i ragazzi entrano
per convincere i colleghi a «prendersi una pausa». L'ipocrisia precaria qui ti
fa essere formalmente un «lavoratore autonomo», in modo da non poter neppure
fare ricorso (o causa legale) quando ti cacciano senza spiegazioni. Così anche
lo sciopero ha un altro nome.
Mi spiegano che il primo turno è quello «più difficile»,
perché ci sono piccole porzioni di operatori che un contratto «vero» se lo sono
portato dietro dalle aziende di provenienza, prima dell'«esternalizzazione» (il
call center dell'Inpdap, per esempio), e se lo terranno finché dura (tre anni,
in quel caso). Eppure escono in tanti, di tutte le età. Molti sono rimasti a
casa, dicono. Vorrei entrare per vedere se le sale sono vuote, ma in portineria
- dopo qualche minuto - mi fanno rispondere che «all'ufficio comunicazione non
c'è nessuno al momento che possa riceverla o accompagnarla». A suo modo, è una
risposta.
Perché a una certa età si viene a lavorare in un posto come
questo? «Perché non si trova nulla» mi risponde una signora sui 50, «uno
stipendio non basta e bisogna integrare». Un'altra viene «da 25 anni passati in
due società multinazionali. Oltre i 40, si trova solo questo. Dopo la cassa
integrazione, se ti hanno licenziato, dove vai? Solo al call center». O «al
pony express», aggiunge un altro. Una signora disegna un quadro familiare
illuminante: «anche mio figlio piccolo lavora qui con me; l'altro si è
sistemato, sta in un corpo militare». Pochi, i «posti fissi», pare.
Si improvvisa un'assemblea, intervengono lavoratori di altri
call center, ma anche di Telecom. Arrivano alcuni militanti di Riforndazione,
l'assessore regionale al lavoro, Alessandra Tibaldi. Sono presenze importanti,
perché rompono - insieme ad alcune interrogazioni parlamentari (Alfonso Gianni,
Gabriella Pistone) - l'accerchiamento mediatico intorno a questa lotta, che si
contrappone ruvidamente alle soluzioni fin qui date con l'accordo tra sindacati
e azienda; ma che ha confermato in pieno la logica e la condizione precaria,
sostituendo i contratti di «inserimento», «somministrazione» o, peggio,
«apprendistato» ai vecchi e ormai illegali co.co.co. che scadono il 30
settembre.
Il punto del contendere è tutto qui: nuove forme di
precarietà, nello schema della «legge 30», oppure la «stabilizzazione» del
lavoro, con il contratto a tempo indeterminato, sia pure in «tempi
ragionevoli»? La Tibaldi parla di «degenerazione dei rapporti sociali che
chiama la responsabilità delle istituzioni», e rivela che il suo ufficio è
ormai giorno e notte il terminale di situazioni tutte uguali: esternalizzazioni,
chiusure, precarietà di ogni genere. Soprattutto a Fiumicino, dove stanno
smantellando rapidamente e senza alcun ammortizzatore sociale tutte le
strutture dell'indotto aeroportuale. «Bisogna discutere con Atesia e
individuare un percorso di stabilizzazione certo», partendo dal «presupposto
del reintegro dei 4 licenziati» dopo lo sciopero di giugno e un'assemblea a
luglio.
E' chiaro che a livello delle istituzioni territoriali
qualcosa sta cambiando: su di loro si scaricano tensioni sociali cui non
possono spesso dar risposta, se non altro per ragioni di bilancio. Masse di
soggetti «fragili», esposti alle intemperie del mercato del lavoro, dei servizi
essenziali insufficienti (il problema della casa, per queste figure, è spesso
irrisolvibile).
Ma è evidente anche la fatica improba che si assume chi
cerca di organizzare i lavoratori precari. Qui la tocchi con mano. I dipendenti
(pardon..) hanno un turn over elevatissimo, anche se qualcuno lavora qui da
oltre 10 anni; così come anche le «campagne» (il lavoro concreto derivante
dalle commesse dei clienti di Atesia) e gli orari di lavoro. E' un continuo
«sensibilizzare» persone che poi se ne vanno schifate o perché trovano di
meglio. O che hanno paura. E' il cuore informatico di questo tipo di impresa a
rendere possibile un'organizzazione del lavoro parcellizzata fino
all'individualizzazione senza però mai smarrire il filo del comando, del
controllo ad personam, in relazione agli obiettivi produttivi. E l'individualizzazione
minimizza anche le opportunità dell'organizzazione collettiva, sindacale. Un
tipo di impresa senza alcuna «responsabilità sociale», cui interessa solo
spremerti un tot di lavoro e poi stop. Fine, fuori.
Fuori si fermano quelli del secondo turno, e il piazzaletto
davanti all'ingresso si riempie presto. Sono di più del mattino, e meno
disomogenei. La lotta prosegue, l'azienda tace, le istituzioni locali si
offrono per la mediazione. Non finirà qui, non è una fiammata. Fuori, su via Lamaro,
dall'altra parte della strada, un altro volto della precarietà moderna: giovani
palestrati, ragazze inguainate, anziani impomatati. Stanno seducentemente in
fila sotto il sole. Attendono il loro turno per un «provino» in una telefiction di Mediaset.