«Puntiamo a un contratto per
tutti»
Miceli
(Slc Cgil): va tutelato chi lavora in appalto, sono responsabili le grandi
compagnie
ANTONIO
SCIOTTO
Il lavoro precario nei
call center riguarda un'intera generazione, quella dei giovani che oggi hanno
20-30 anni. D'altra parte, in realtà come l'Atesia di Roma, ci sono già
operatori con 14 anni di anzianità, precari over 45. «Si ripropone quello che è
accaduto in Italia nel dopoguerra e fino alla fine degli anni Sessanta - spiega
Emilio Miceli, segretario generale della Slc Cgil, la categoria delle
telecomunicazioni - Allora il sindacato e la politica si trovarono di fronte
alla generazione di metalmeccanici ed edili senza tutele. Ci fu il boom delle
costruzioni, e si svilupparono le catene di produzione dei beni di massa, i
frigoriferi, le auto. Le battaglie sindacali e della sinistra portarono allo
Statuto dei lavoratori, che alzò l'asticella dei diritti. Sono i genitori degli
operatori telefonici di oggi: hanno potuto accedere ai mutui, comprarsi una
casa, costruirsi una pensione, fare studiare i propri figli e assicurare loro
un'assistenza sanitaria. Tutte opportunità, diritti e tutele che i giovani dei call
center, oggi, non hanno per sé».
Si sono persi decenni di conquiste sindacali, e ora i
collaboratori a progetto devono ripartire da zero.
Sì, e il problema riguarda non solo il sindacato, ma anche
la politica. Noi puntiamo a contrattualizzare questi lavoratori, che adesso,
con il cosiddetto «lap» - il lavoro a progetto introdotto dalla legge 30 - si
trovano costretti a firmare contratti individuali. Con il libro «No Logo» di Naomi
Klein si è posto il problema dei bambini sfruttati dalla Nike in Asia, ma qui
in Italia le cose sono poi così differenti? Ci sono migliaia di ragazzi che
vanno la mattina a lavorare per diverse ore ogni giorno, e alla sera non sanno
se hanno guadagnato o meno. E' una palese violazione dell'articolo 36 della
Costituzione, dove si stabilisce che debba esserci una proporzione tra il
lavoro prestato e la retribuzione. Del problema dovrebbe farsi carico il
Parlamento, aprendo una Commissione di inchiesta sul lavoro nei call center. E
non è che si stia male solo nel Sud: oggi la stessa situazione si presenta in
tutte le aree in ritardo di sviluppo, come il Piemonte, dove la crisi dell'industria
e la disoccupazione creano le premesse per il proliferare di questi lavori.
Oltretutto, con la liberalizzazione delle
telecomunicazioni e la legge 30 le imprese si stanno scatenando.
Sì, sono due fattori determinanti. I contratti a progetto
vengono applicati quasi del tutto nelle società che operano in outsourcing, ovvero che ricevono le commesse dai grandi
gruppi telefonici o da tante altre aziende: ormai quasi tutte le imprese, per
non parlare degli stessi enti pubblici, dispongono di call center e numeri
verdi. In occasione del rinnovo contrattuale che stiamo discutendo proprio in
questi giorni, chiediamo dunque alle imprese di ricondurre l'intera filiera in
un sistema di responsabilità e regole certe. Non è possibile che non sappiano
chi lavora per conto loro e a quali condizioni, noi non ci crediamo. Non è più sopportabile, insomma, che un operatore Vodafone
sia inquadrato al quinto livello e abbia un contratto in regola, mentre un
lavoratore di un outsourcer sia sprovvisto
persino di un fisso mensile. Bisogna assicurare un contratto e un compenso
certo a tutti, valido per l'intera filiera. Con Cisl e Uil stiamo creando un
osservatorio sui call center. Quanto alla legge 30, precarizza al massimo il
lavoro: la Cgil ha espresso il suo giudizio negativo, e ha chiesto alla
politica di correggere questi errori.
A Palermo è stato firmato in gennaio, anche dalla Cgil,
un accordo con il gruppo Cos che non riconosce ai lavoratori un compenso fisso
né prospettive di stabilizzazione. Vi sembra un modello da esportare altrove?
Io stesso sono palermitano e conosco la realtà difficile
di quella provincia: capisco che si possa essere tentati di farsi prendere da
un estremo realismo, lì c'è veramente fame di lavoro. Detto questo, credo che
quell'accordo abbia un limite: non assicura la certezza di una retribuzione
certa. L'intento era positivo, si voleva aprire un dialogo con un'azienda
difficile come la Cos, ma l'idea di non dare un fisso ai lavoratori è tutta
delle controparti, e non possiamo farla nostra. Noi stiamo trattando per il
contratto nazionale, e abbiamo già detto chiaramente che l'accordo di Palermo
non può essere riproposto altrove. Gli edili di cui parlavo all'inizio, negli
anni Sessanta, avevano almeno un fisso a cui aggiungere un cottimo: certo nel
2005 non possiamo permetterci di tornare indietro.
Il
Manifesto 01/04/2005