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[ Dicono di noi > Puntiamo a un contratto per tutti - Il Manifesto, sabato 02 apr 2005 ]

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«Puntiamo a un contratto per tutti»
Miceli (Slc Cgil): va tutelato chi lavora in appalto, sono responsabili le grandi compagnie

 

ANTONIO SCIOTTO
 
Il lavoro precario nei call center riguarda un'intera generazione, quella dei giovani che oggi hanno 20-30 anni. D'altra parte, in realtà come l'Atesia di Roma, ci sono già operatori con 14 anni di anzianità, precari over 45. «Si ripropone quello che è accaduto in Italia nel dopoguerra e fino alla fine degli anni Sessanta - spiega Emilio Miceli, segretario generale della Slc Cgil, la categoria delle telecomunicazioni - Allora il sindacato e la politica si trovarono di fronte alla generazione di metalmeccanici ed edili senza tutele. Ci fu il boom delle costruzioni, e si svilupparono le catene di produzione dei beni di massa, i frigoriferi, le auto. Le battaglie sindacali e della sinistra portarono allo Statuto dei lavoratori, che alzò l'asticella dei diritti. Sono i genitori degli operatori telefonici di oggi: hanno potuto accedere ai mutui, comprarsi una casa, costruirsi una pensione, fare studiare i propri figli e assicurare loro un'assistenza sanitaria. Tutte opportunità, diritti e tutele che i giovani dei call center, oggi, non hanno per sé».

Si sono persi decenni di conquiste sindacali, e ora i collaboratori a progetto devono ripartire da zero.

Sì, e il problema riguarda non solo il sindacato, ma anche la politica. Noi puntiamo a contrattualizzare questi lavoratori, che adesso, con il cosiddetto «lap» - il lavoro a progetto introdotto dalla legge 30 - si trovano costretti a firmare contratti individuali. Con il libro «No Logo» di Naomi Klein si è posto il problema dei bambini sfruttati dalla Nike in Asia, ma qui in Italia le cose sono poi così differenti? Ci sono migliaia di ragazzi che vanno la mattina a lavorare per diverse ore ogni giorno, e alla sera non sanno se hanno guadagnato o meno. E' una palese violazione dell'articolo 36 della Costituzione, dove si stabilisce che debba esserci una proporzione tra il lavoro prestato e la retribuzione. Del problema dovrebbe farsi carico il Parlamento, aprendo una Commissione di inchiesta sul lavoro nei call center. E non è che si stia male solo nel Sud: oggi la stessa situazione si presenta in tutte le aree in ritardo di sviluppo, come il Piemonte, dove la crisi dell'industria e la disoccupazione creano le premesse per il proliferare di questi lavori.

Oltretutto, con la liberalizzazione delle telecomunicazioni e la legge 30 le imprese si stanno scatenando.

Sì, sono due fattori determinanti. I contratti a progetto vengono applicati quasi del tutto nelle società che operano in outsourcing, ovvero che ricevono le commesse dai grandi gruppi telefonici o da tante altre aziende: ormai quasi tutte le imprese, per non parlare degli stessi enti pubblici, dispongono di call center e numeri verdi. In occasione del rinnovo contrattuale che stiamo discutendo proprio in questi giorni, chiediamo dunque alle imprese di ricondurre l'intera filiera in un sistema di responsabilità e regole certe. Non è possibile che non sappiano chi lavora per conto loro e a quali condizioni, noi non ci crediamo. Non è più sopportabile, insomma, che un operatore Vodafone sia inquadrato al quinto livello e abbia un contratto in regola, mentre un lavoratore di un outsourcer sia sprovvisto persino di un fisso mensile. Bisogna assicurare un contratto e un compenso certo a tutti, valido per l'intera filiera. Con Cisl e Uil stiamo creando un osservatorio sui call center. Quanto alla legge 30, precarizza al massimo il lavoro: la Cgil ha espresso il suo giudizio negativo, e ha chiesto alla politica di correggere questi errori.

A Palermo è stato firmato in gennaio, anche dalla Cgil, un accordo con il gruppo Cos che non riconosce ai lavoratori un compenso fisso né prospettive di stabilizzazione. Vi sembra un modello da esportare altrove?

Io stesso sono palermitano e conosco la realtà difficile di quella provincia: capisco che si possa essere tentati di farsi prendere da un estremo realismo, lì c'è veramente fame di lavoro. Detto questo, credo che quell'accordo abbia un limite: non assicura la certezza di una retribuzione certa. L'intento era positivo, si voleva aprire un dialogo con un'azienda difficile come la Cos, ma l'idea di non dare un fisso ai lavoratori è tutta delle controparti, e non possiamo farla nostra. Noi stiamo trattando per il contratto nazionale, e abbiamo già detto chiaramente che l'accordo di Palermo non può essere riproposto altrove. Gli edili di cui parlavo all'inizio, negli anni Sessanta, avevano almeno un fisso a cui aggiungere un cottimo: certo nel 2005 non possiamo permetterci di tornare indietro.

 

Il Manifesto 01/04/2005

 

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