L’Italia, fabbrica cacciavite della Fiat

L’Italia, fabbrica cacciavite della Fiat

di Guido Viale

Nessuno si è chiesto che cosa sarebbe successo se a Mirafiori avessero vinto i no. Non è una domanda peregrina; in fin dei conti i sì hanno vinto per pochi voti. Se avessero vinto i no, Marchionne, i sindacati gialli (Cisl, Uil, Fismic e compagnia) e Sacconi (in rappresentanza di un governo che non esiste più) avrebbero subito uno smacco ancora maggiore; ma nei fatti non sarebbe successo niente di diverso da quello che accadrà. Con la vittoria dei sì gli operai andranno in Cig per almeno un anno.

Quando, e se, Mirafiori riaprirà, la situazione in Italia e nel mondo potrebbe essere molto cambiata. Nel frattempo verranno costituite, a Pomigliano, a Mirafiori, e poi in tutti gli altri stabilimenti Fiat, tante nuove società (all’inglese, NewCo) che assumeranno con contratti individuali e vincolanti gli operai che serviranno. Alla Zastava (l’impianto serbo della Fiat) ne stanno scartando tantissimi. A Mirafiori, con un’età media di 48 anni, un terzo di donne e un terzo con ridotte capacità lavorative, a essere scartati saranno forse ancora di più. Poi cominceranno ad arrivare motori, trasmissioni e pianali prodotti negli Usa per essere assemblati con altre componenti di varia provenienza, trasformati in Suv e Jeep (che è l’«archetipo» di tutti i Suv) e rimandati indietro: fino a che l’«esportazione» dagli Usa in Italia di quei motori e pianali non avrà raggiunto un miliardo e mezzo di dollari, come da accordi presi tra Marchionne e Obama. Poi si vedrà: di sicuro cesserà quell’avanti e indietro di pezzi tra Detroit e Torino che non ha senso; e per Mirafiori bisognerà trovare una nuova produzione e, forse, un nuovo «accordo». Ma non è detto che ci si arrivi: il prezzo del petrolio è tornato a salire; il Medio Oriente (il serbatoio delle auto di Oriente e Occidente) è in fiamme; quei Suv, che due anni fa Marchionne aveva escluso di poter produrre in Europa, potrebbero non trovare acquirenti neanche negli Usa. Se invece il «colpo grosso» di Marchionne sulla Chrysler andrà in porto, la direzione del nuovo gruppo unificato emigrerà negli Usa.

Gli operai che hanno votato sì non si sono affatto assicurati il futuro. E se avessero vinto i no? Marchionne avrebbe dovuto comunque «esportare» in Italia (e dove, se no?) motori e pianali per poi reimportarli montati; perché esportare dagli Usa vetture finite per un miliardo e mezzo di dollari gli è assai più difficile. E nemmeno avrebbe potuto montarli in uno stabilimento del Canada (come aveva minacciato), o del Messico (dove monta la 500); perché sono entrambi paesi del Nafta e le esportazioni verso quell’area non contano ai fini dell’obiettivo imposto da Obama.

L’investimento, poi, sarà lo stretto necessario (il cosiddetto «accordo» di Mirafiori non include nessun impegno su questo punto e Marchionne ha detto e ripetuto che tutto dipenderà da come andrà il mercato). Ma con due stabilimenti e 10.000 e più addetti in Cig per un anno, per Fiat la perdita di ulteriori quote di mercato in Europa è certa; e sarà sempre più improbabile arrivare a esportare dall’Italia un milione di vetture nel 2014, come previsto dal piano Fabbrica Italia, anche includendo i 250mila Suv assemblati a Mirafiori e trasferiti a Detroit, che sono un po’ un gioco delle tre carte. Lasciamo poi perdere gli altri 18 e rotti miliardi di investimenti previsti dal piano…

Ma che cosa sarà la Fiat nel 2014? Una serie di marchi governati da Detroit e tante società

(NewCo) distinte quanti sono gli stabilimenti (o anche più: a Mirafiori ce ne sono già diversi); ciascuna delle quali avrà produzioni indipendenti. La Zastava produrrà auto Fiat,ma Mirafiori produrrà auto Chrysler e Alfa (se questo marchio non verrà venduto), mentre Fiat Poland lavorerà sia per Fiat che per Ford. Così, se «il mercato» lo richiederà, anche gli stabilimenti italiani ex Fiat potranno lavorare in tutto o in parte per la concorrenza. Insomma, quello che gli «accordi» di Pomigliano e di Mirafiori stabiliscono è che Fiat-Chrysler sarà una cosa e le NewCo, con gli operai legati al «loro» stabilimento da un contratto individuale, sono un’altra; e che ciascuna andrà per la sua strada: potrà essere chiusa, o venduta, o data in affitto, o lavorare «in conto terzi», senza che ciò abbia alcuna ripercussione sugli altri stabilimenti e sugli altri lavoratori dell’ex Fiat Group. Se gli operai delle imprese globali devono trasformarsi in truppe al comando dei rispettivi manager per fare la guerra agli operai di altre imprese e di altri manager globali, come dice Marchionne, questa guerra, in cui i lavoratori perderanno sempre e non vinceranno mai, non si svolgerà solo tra grandi competitor globali, ma anche tra le varie NewCo in cui si risolverà lo «spezzatino» della Fiat.

Sapevano queste cose gli operai di Mirafiori quando hanno votato? No. Qualcuno aveva cercato di spiegargliele? No (solo la Fiom, benemerita, aveva distribuito agli operai il testo del contratto che i sindacati gialli avevano firmato senza nemmeno convocarli in assemblea). Avrebbero votato allo stesso modo se fossero stati adeguatamente informati? Forse no: tutti quelli del sì pensavano e dicevano che almeno così avrebbero salvato il loro futuro. Eppure 150 economisti hanno sottoscritto un documento di dura critica dell’accordo e di sostegno alla Fiom. Se si fossero adoperati per mettere per tempo al corrente lavoratori e opinione pubblica di quel che bolliva in pentola, invece di lasciare campo libero a chi spiegava – e continua a ripetere – urbi et orbi che quell’accordo garantisce un futuro sicuro sia agli operai che al Gruppo, forse il referendum avrebbe avuto un esito diverso. Non è una recriminazione ma una proposta di lavorare in comune – a più stretto contatto con il mondo reale – rivolta a tutti gli interessati.

C’è un’alternativa a tutto questo? Sì; quella di abbandonare gradualmente le produzioni

dove la competizione non è che una corsa a perdere – e l’industria dell’auto è oggi il settore dove questi effetti sono più vistosi e più gravidi di conseguenze – per imboccare una strada dove il rapporto con il mercato sia più diretto, concordato, meno aleatorio e meno esposto all’alternativa mors tua vita mea. La mobilità sostenibile, solo per fare un esempio (ma ce ne sono altri mille, e l’efficienza energetica o le fonti rinnovabili sono tra questi) non vuol dire solo produrre meno auto – e auto meno energivore, meno inquinanti, meno effimere, meno veloci, meno costose, da usare soprattutto in forme condivise – e più treni, più tram, più bus grandi e piccoli; vuol dire gestire in forme coordinate la domanda di spostamenti di merci e persone avvalendosi di tutte le opportunità offerte dalle tecnologie telematiche; e impiegando in servizi essenziali molto più personale di quanto ne richiedono i robot di una fabbrica semiautomatizzata.

Ma è una scelta che non può ricadere solo sulle spalle degli operai di una fabbrica dal futuro incerto; e nemmeno su quelle di un sindacato; e meno che mai su quelle di un management che vede nella competizione senza limiti l’unica ragion d’essere del proprio ruolo e dei propri spropositati guadagni. È una scelta che deve fare capo – come ha detto Marco Revelli al seminario Fiom-Micromega di Torino – a un’intera comunità: e innanzitutto a quelle il cui destino dipende da quello dei lavoratori – giovani, anziani, occupati, disoccupati o precari – a cui accordi come quello di Mirafiori rubano il futuro. E «comunità», qui, non è una parola astratta: vuol dire amministrazioni locali, Comuni, Province, Università, Asl, ricerca, istituzioni culturali, associazioni, comitati, parrocchie, media, programmi elettorali: ciascuno deve chiedersi che cosa può fare per capirne di più, per informare se stesso e gli altri, per contribuire, con la propria esperienza diretta, il proprio bagaglio culturale, la propria professionalità, la propria etica, a un progetto condiviso. E’ un compito comune perché per tutti – o quasi – il baratro è alle porte.

il manifesto – 10 febbraio 2011

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